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Salvator
Rosa.

E come la Pittura entro la Culla
D'ogni minuzia fua gli aveffe istrutti,
Credon d'effer maeftri, e non fan nulla.
Dipinger tutto il dì Zucche, e Presciutti,
Rami Padelle, Pentole, e Tappeti,
Uccelli, Pefci, Erbaggi, e Fiori, e Frutti.
E prefumeran poi queft' indifcreti
D'effer Pittori, e non voler che adopra
La sferza de' Satirici Poeti,

Che fe hanno a mettere altre cofe in opra,
Non fi vede mai far nulla a propofito,
E il coftume, e l'idea ya fottofopra.
Gli Sciti nel veftir fanno all' oppofito;
E perchè l'ignoranza hanno per fpofa
Non danno colpo, che non fia fpropofito.
Perdoni il Ciel al Cigno di Venofa 5)
Che ai Poeti e ai Pittori apri la ftrada
Di fare a modo lor quafi ogni cofa.
Con quefta autorità più non fi bada,
Che con il vero il fimulato implichi,
E che dall'effer fuo l'arte decada.

Più Tele 6) ha il Tebro, che non ha lombrichi:
E fan più quadri certi capi infani,

Che non fece Agatarco ai tempi antichi:
Onde differo alcuni Oltramontani,

Che di tre cofe è l'abbondanza in Roma:
Di quadri, di fperanze e baciamani.
Elcon dal Lazio le Pitture a foma:

E tanta de' Pittori è la femenza,
Che infettato ne refta ogni idioma.
Non conofcono ftudio, o diligenza,
E in Roman nondimen questi Cotali
Sono i Pittori della Sapienza. 7)
Altri studiano a far folo Animali,

I 3

E fen

5) Orazio, in quei verfi:

Pictoribus atque Poetis

Quaelibet audendi femper fuit aequa potestas. 6) Cio è, pitture. 7) Collegio di Roma.

Salvator
Rosa.

E fenza rimirarfi entro agli specchi,
Si ritraggono giufti, e naturali.

Par che dietro al Baffan 8) ciascuno invecchi,
Rozzo pittor di Pecore, e Cavalle,

E Eufranore, 9) e Alberto 10) han negli orecchi
E fon le Scuole loro mandre, e ftalle,

E confumano in far, l'etadi intere,
Bifcie, Rofpi, Lucertole, e Farfalle.
E quelie beftie fan fi vive e fiere,

Che fra i Quadri e i Pittor fi refta in forfe,
Quai fian le beftie finte, e quai le vere.
Vi è poi talun, che col pennel trascorse
A dipinger Faldoni e Guitterie, 11)
E Facchini, e Monelli, e Tagliaborse,
Vignate, Carri, Calcate, Ofterie,

Stuolo d'imbriaconi, e Genti ghiotte,
Tignofi, Tabaccari, e Barberie:
Nigregnacche, Bracon, Trentapagnotte:
Chi fi cerca Pidocchi, e chi fi gratta,
E chi vende ai Baron le Pere cotte.
Un che pifcia, un che caca, un che alla Gatta
Vende la Trippa: Gimignan, che fuona;
Chi rattoppa un boccal, chi la ciabatta,
Nè crede oggi il Pittor far cofa buona,
Se non dipinge un gruppo di ftracciati,
Se la Pittura fua non è barona.

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8) Francefco da Ponte, detto Il Bassano, famofo pittore. 9) Pittore Greco.

10) Alberto Durer, celeberrimo pittore e fcultore Te defco,

11) Faldoni vuol dire Plebei; Guitterie, luogo, dove fi radunano li Guidoni, fordidi, etc.

Così ancor io da quelli ftracci imparo,
Che dei moderni Principi l'istinto
Prodigo è ai luffi, alla pietade avaro.
Quel che abborrifcan vivo, aman dipinto:
Perche omai nelle Corti è vecchia ufanza
Di avere in prezzo, folamente il finto.

Salvator
Rosa.
Menzini.

Menzini.

(Einer der besten und berühmtesten italiänischen Dichter des vorigen Jahrhunderts, geboren 1646, gestorben 1704. Das Verdienst seiner mit Recht sehr geschäßten zwölf Satiz, ren liegt vornehmlich in einer sehr lebhaften, oft kühnen Wendung der Gedanken, und in einer großen Energie ́des Ausdrucks, den dieser Dichter überall fehr in seiner Gewalt hatte. In der Ausgabe seiner sämmtlichen Werke, die zu Venedig 1769 in vier Bånden'in gr. 12. gedruckt ist, finde ich feine Satiren nicht; sie sind aber mehrmals einzeln hers ausgekommen, und von dem Marchefe de Guasco kommens tirt worden. Ein saubrer Abdruck in klein 4. den ich davon vor mir habe, hat bloß den Titel: Satire del Menzini, und ist ohne Angabe der Jahrszahl und des Druckorts. Die folgen. de, in der Ordnung die zwölfte, bestraft die. Thorheit und Unbesonnenheit der menschlichen Wünsche.).

Quanto

ne voti fuoi delira il mondo!
Ben vi ha più d'un, che fu dal cielo impetra
Ciò, che negato il renderia giocondo.

E talun muove una montana pietra
Per difcoprir l'acciajo, e incauto appresta
Contro fe i dardi nell' altrui faretra.
Bonden mio caro, è gran follia pur quefta,
Che nel cervello uman pullula, e forge,

menzini.

Di bramar quel, ch' altrui turba e molefta,
Ecco Fronton al ciel fuoi voti porge,

Per avere un figliuol di fua conforte,
Che poi crefciuto contro il Padre inforge.
Quindi fi vede per fua mala forte

Calar del Brefchi all' orrido zimbello,
E pofcia riportarne infamia, e morte.
E colle fcope dietro, e col cartello
Andarfene mitrato a porre in gogna,
E crocifero fuo farfi il bargello.
Un altro avere una zitella agogna

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In moglie, el ciel ne prega, e poi conosce,
Ch' infatti è follenniffima carogna,
Che le poppacce fue pendenti, e flofce
Moftran, che questa nuova Poliffena
Sin d'undici anni ella allargò le cofce.
In fe per quefto io non avrò mai piena
La man d'incenfo, e voi ftarete, o numi,
Quafi fcornati in folitaria fcena.
Oh mal fpefi per me Panchei profumi!
S' altro chieder non fo, meglio farebbe,
Che in qualche fogna, o i'vi getṭaffi.a' fiumi,
So, che qualche baron forfe direbbe,

Che facrilego è quefti, che gl'incenfi
Maltratta, un ateifta effer ci debbe..
Dica ciò, ch' egli vuol, dicalo, e penfi,
Che chiunque non dà dell' incenfate
In dio non poffa aver gli affetti intenfi.
Se camicia ho l'inverno, e fe la ftate
Un forfo d'acqua; l'Indica miniera
Non chieggio ad arricchir la povertate,
Non fon Quintilian, che fi difpera,

S' egli non entra in corte; entravi, e acerba
Sorte fa sì, che poi di rabbia e pera.

Che ad allacciar la cupida e fuperba
Mente di noi mortali, il viziq fteffo
Sempre per noi qualche galapplo ferba,

E-talun brama effer tenuto appreffo

Le genti un qualche favio, e al fin s' avvede,
Che dal moftro d'invidia ci refta oppreffo,

Odi Tognetto, che ad Apollo chiede
Arch' ei d'effer poeta, e meglio fora
Gettar 'n un ceffo le Pierie fchede.
Che della patria mendicando fuora
Non fi vedrebbe andar cenciofo, e fcalzo,
Nè come uom tratto d'una morta gora.
Così giuoca fortuna, e attende al balzo
Le voglie de' mortali, e loro intorno
Leva pofcia da fenno ogni rincalzo.
Chi l'umil ftato fuo fi prende a fcorno,
E dolor fente al cuor di non potere
La crefta alzar fopra degli altri, e'l corno,
Coftui potrebbe anco bifogno avere

D'elleboro affai più, che un tal girullo,
Che beve, e infieme inghiotte anco il bicchiere.
E ben ftarebbe spennacchiato, e grullo
Entro un gabbione a canto della Mela,
Dov' ebbe il buon Pandolfo altro trastullo.
Ciò che voglia il deftino, a noi fi cela,
E non fappiam di quefta torbid' onda,
S'ella rinfresca, o pur f'ella dipela,
E talvolta fi moftra altrui feconda

La forte, perchè poi più d'alto caggia,
Chi ne' ben di quaggiù fua fpeme fonda.
E fa com' uom, che altrui lufinga, e piaggia,
Poi te l'azzecca, c' non è lucid'oro

Ciò, che rifplende, e al nostro fguardo raggia,
Anime grandi, il vostro nome adoro

Se alcun pur v'è, che tal prenda configlio
Di far della virtude almo teforo.
Non chiamo io quì virtù, col fopracciglio
Saper con Cingiglion lodar la fava,
O fara un fonettin fopra un coniglio.
Nè foper come Dio Priapo stava
Efpofto a favorir donne Romane,
Quando d'effe qualcuna a fpofo andava.
Lafcio di quefto dalla fera a mane
Penfare a Don Teglione, e fe Dufille,
O fe Clelie, o Cluilie a dir rimane.
Virtù quella chiam' io, che mille e mille

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menzini.

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